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Giuseppe Ungaretti

   

 

 

   

     Sommario: La biografia - La poetica - La visione del mondo e gli orientamenti politici - Le raccolte delle poesie: L’Allegria e le immagini del poeta; il Sentimento del tempo; il Dolore; Le Terra promessa; Derniers Jours.

 

    

    

     La biografia

    

     G. Ungaretti nacque nel 1888 ad Alessandria d’Egitto da una famiglia di Italiani originari della provincia di Lucca. Il padre, operaio, aveva infatti dovuto seguire l’impresa di cui era salariato quando ebbe in appalto alcuni lavori per il taglio del canale di Suez. Morto quasi due anni dopo la nascita di Giuseppe, secondo di due figli, le redini della famiglia furono prese in mano dalla madre, donna ad un tempo volitiva e dolce, la quale aprì un forno ed andò ad abitare in una casa ai margini della città, da dove si potevano vedere in lontananza il deserto e le tende dei beduini, immagini che rimarranno per sempre impresse nella memoria del poeta. Curò personalmente l’educazione religiosa dei figli, infine volle che studiassero. Così Giuseppe frequentò prima l’Istituto don Bosco, poi l’Ecole Suisse Jacot, pensò infine, per accontentare la madre, di iscriversi ad una Facoltà universitaria. In questi anni della sua adolescenza egli conobbe ad Alessandria alcuni anarchici italiani che avevano evaso l’obbligo della residenza coatta. Frequentavano questi la baracca rossa , così detta dal colore della lamiera, fondata da Enrico Pea, anch’egli originario della Lucchesia, in Africa per commerciare marmi, ma non solo per questo, e divenuto presto amico di famiglia degli Ungaretti. A contatto con questi anarchici, che non si limitavano a tenere riunioni e a fare dibattiti, ma davano anche vita a manifestazioni politiche, Giuseppe finì con l’abbandonare il Cristianesimo e con l’atteggiarsi ad ateo. Aveva conosciuto nello stesso periodo alcuni beduini, tra questi divenne suo intimo amico un certo Sceab Moammed, di confessione musulmana. Nel 1912 lasciò l’Egitto, avendo deciso di andare a Parigi per iscriversi alla Sorbona. Passò però prima per l’Italia, alla ricerca delle sue radici e per conoscere la terra dei suoi avi. A Parigi prese alloggio, con l’amico Sceab che lo aveva seguito, in Rue de Carme, in un alberghetto. Alla Sorbona Giuseppe poté seguire le lezioni di Lanson ( il De Sanctis, per così dire, dei Francesi), Bergson e Bedier ( uno dei più grandi filologi romanzi di tutti i tempi). In città poi poté anche conoscere famosi personaggi, come Apollinaire, e vivere a contatto con i pittori Picasso, De Chirico, Modigliani. La sua vita parigina fu solo rattristata dal suicidio dell’amico Sceab avvenuto per una sua crisi esistenziale. Quando scoppiò la prima guerra mondiale, tornò in Italia, fu interventista acceso, tanto da tenere comizi nelle piazze, e quando anche il nostro Paese entrò in guerra si arruolò come volontario; non ebbe tuttavia i gradi da ufficiale, ma fu spedito al fronte come soldato semplice. Nel 1915 conobbe anche Benito Mussolini e ne divenne amico. Finita la guerra, sposò la francese Jeanne Dupoix, che gli rimase sempre compagna fedele e da cui ebbe due figli, Anna Maria, (chiamata Marion), nel ‘25 e Antonio Benito, (Antonietto), nel 1930. Visse pertanto insegnando lingua francese e collaborando a diversi giornali. Trasferitosi nel ‘20 in Italia, per un po’ di tempo visse a Roma, impiegato presso l’ufficio stampa del Ministero degli Esteri, poi non potendosi più permettere un appartamento nella Capitale, si trasferì a Marino, uno dei Castelli romani. A Roma frequentò Barilli, Cardarelli, Cecchi ed altri intellettuali. Con essi amò fare escursioni a Tivoli e a Subiaco. A Tivoli si possono infatti ammirare Villa Adriana, uno dei maggiori capolavori dell’architettura imperiale romana antica, e Villa Gregoriana; a Subiaco invece ci sono il famoso monastero benedettino e il Sacro speco, la grotta in cui per alcun tempo visse San Benedetto. Durante la settimana santa del ‘28 vi andò assieme all’amico Vignanelli, con lui seguì la liturgia del triduo pasquale. Quando tornò dichiarò: “d’improvviso...la parola dell’anno liturgico mi si è fatta vicina nell’anima” ; ma più forte impressione dalla santità dei luoghi e dalla spiritualità da essi emananti dovette ricevere l’amico, se poco dopo si convertì e successivamente si fece monaco benedettino. Della città di Roma frequentò luoghi di incontro di artisti come il Caffè Aragno, amò le rovine antiche, ma sentì soprattutto il clima, l’atmosfera, creata dalle chiese barocche in particolare sotto la luce di certi tramonti. Dopo essere stato per un po’ di tempo impiegato presso il Ministero degli Affari Esteri, nel 1936 si trasferì in Brasile, avendo accettato l’offerta di una docenza presso l’Università di San Paolo. Fu quella una stagione particolare della vita di Ungaretti improvvisamente rattristata da un altro imprevedibile lutto, la morte del figlio Antonietto di soli otto anni. Da San Paolo tornò in Italia quando scoppiò la seconda guerra mondiale, non tanto perché il Brasile si era schierato contro l’Asse, quanto per condividere le sorti del suo popolo. Ma le sue sofferenze vennero dopo. Nel 1947 infatti taluni antifascisti pretesero di sottoporlo ad epurazione volendo anche sottrargli la cattedra universitaria avuta nel ‘42 “ per chiara fama”. Subì così, per la cattiveria e la caparbia dei suoi nemici, ben tre processi, ma sempre ne uscì assolto e riconosciuto di ogni accusa innocente. Ma l’umiliazione fu tanta che provocò in lui un collasso cardiaco, dal quale tuttavia si riprese.

     Con il passare degli anni però le cose migliorarono: gli fu confermata la cattedra universitaria per l’insegnamento della Letteratura Italiana e la mantenne ormai sino all’età della pensione, cominciò a riscuotere riconoscimenti letterari di ogni tipo, fu nominato Presidente della Comunità europea degli scrittori. In occasione del suo ottantesimo compleanno fu solennemente festeggiato a Palazzo Chigi dal Presidente del Consiglio del momento, Aldo Moro, e dagli amici Quasimodo e Montale.

     Si spense a Milano nel 1970 in una casa privata. I suoi funerali si celebrarono però a Roma, con partecipazione di popolo, ma non dell’Italia ufficiale.

    

    

     La poetica

    

     Per quanto riguarda la poetica, è evidente per un verso un legame di Ungaretti con i simbolisti francesi, per un altro con l’esperienza leopardiana. I componimenti dell’ “Allegria” infatti sono caratterizzati tutti dalla scelta di una forma metrica non tradizionale. Le strofe sono sempre di un numero indefinito di versi che sono nell’ambito delle strofe di lunghezza ineguale, la rima è assente o assai rara, la punteggiatura è del tutto mancante così come assenti sono le congiunzioni subordinanti. La paratassi prevale quasi sempre sulla ipotassi, gli accorgimenti retorici tradizionali sono ridotti all’essenziale: qualche anafora, qualche similitudine. La brevità poi è di norma. Ad Ungaretti anzi si deve la più breve lirica italiana: “M’illumino / d’immenso” (Mattina). Ma il legame con i francesi è evidente anche per l’uso che il poeta fa di immagini simboliche (inserite nel discorso in maniera quasi impercettibile), per il senso di mistero che è alle radici di questa poesia, per cui se per i decadenti francesi il poeta si poneva come un veggente, capace di sondare l’inconnu (l’ignoto), Ungaretti di esso può dire: “ Vi arriva il poeta / e poi torna alla luce con i suoi canti / e li disperde...” (Il porto sepolto). In questo contesto anche nella poesia ungarettiana la parola acquista un particolare significato, essa è ricercata e riscoperta ogni volta come se fosse la prima, ricercata dentro l’uomo, non fuori di esso, tanto che egli dice: “Quando trovo / in questo mio silenzio / una parola / scavata è nella mia vita / come un abisso” (Commiato). Con Ungaretti poi usuale diviene l’uso del procedimento analogico che combinato con gli elementi già menzionati finisce col generare il suo ermetismo. Esemplare sotto questo rispetto è la breve già citata lirica “Fratelli” nella quale notiamo l’abolizione anche dei nessi subordinanti, oltre che della punteggiatura. L’uso dell’analogia fu per altro dal poeta teorizzato in uno scritto in cui leggiamo: “...il poeta d’oggi cercherà di mettere a contatto immagini lontane, senza fili. Dalla memoria all’innocenza quale lontananza da varcare, ma in un baleno”, dove però quel “senza fili” potrebbe far pensare ad un’ascendenza paroliberista. A proposito del lessico c’è da dire poi che, nonostante un certo ermetismo, esso è nient’affatto desueto, particolare, iperletterario. Da Leopardi invece Ungaretti ereditò la struttura binomia degli idilli, anche le sue liriche infatti sono costruite alternando ad una descrizione paesaggistica, una riflessione o l’enunciazione di una verità appena scoperta, magari proprio attraverso il paesaggio. Così anche in Ungaretti, come già in Pascoli, come nei decadenti francesi, la Natura è assunta come una fitta trama di simboli.

     Per quanto concerne il ruolo del poeta, la sua funzione nella società, a parte la citazione già fatta de “Il porto sepolto” in “Italia” Ungaretti così si definisce: “Sono un poeta / un grido unanime / sono un grumo di sogni”, espressione dalla quale si può ricavare la lontananza della concezione ungarettiana da quella di un Carducci, e la vicinanza invece di nuovo a Pascoli, nel concetto del poeta interprete del sentimento collettivo, e a Leopardi, nella definizione di “ grumo di sogni” che riecheggia l’espressione creata dal recanatese per le Operette morali : “libro di sogni poetici” .

     Tutta l’opera di Ungaretti poi dimostra la sua volontà di fare poesia per testimoniare un’epoca, per far riflettere, per educare. Sotto questo profilo Ungaretti è poeta altamente morale. Nello stesso tempo essa costituisce una continua analisi della condizione esistenziale dell’uomo contemporaneo. Certo egli non avrebbe mai accettato il ruolo di poeta vate, tuttavia era convinto della capacità del poeta di saper cogliere l’essenza del suo tempo. Infatti così scrive: “ Il poeta d’oggi ha il senso acuto della natura, è poeta che ha partecipato e che partecipa a rivolgimenti fra i più tremendi della storia. Da molto vicino ha provato e prova l’orrore e la verità della morte ...E uso a tale dimestichezza con la morte che senza fine la sua vita gli sembra un naufragio” . E poiché la sua analisi parte sempre da quella di se stesso, questa poesia poi è sempre anche autobiografica, del resto il poeta stesso confessò: “Le mie poesie hanno fondamento in uno stato psicologico strettamente dipendente dalla mia biografia: non conosce sognare poetico che non sia fondato sulla mia esperienza diretta” .

     Con la pubblicazione però di “ Sentimento del tempo” la poesia ungarettiana conobbe una svolta. Egli infatti, sensibile anche agli indirizzi culturali in quel momento dei vociani, tornò alla metrica tradizionale recuperando il verso settenario e l’endecasillabo. Questa svolta fu preparata per altro da un periodo di studio dei nostri maggiori poeti a cominciare da Dante e Petrarca e coincise anche con la sua conversione. Di essa ci dà spiegazione lo stesso autore scrivendo: “Le mie preoccupazioni in quei primi anni del dopoguerra erano tutte tese a ritrovare un ordine...In quegli anni si voleva prosa: poesia in prosa. La memoria a me pareva invece un’ancora di salvezza: io rileggevo umilmente i poeti, i poeti che cantano. Non cercavo il verso di Jacopone o quello di Dante, o quello di Petrarca...cercavo il loro canto”. A livello formale comunque essa significò il recupero di un discorso formalizzato, il passaggio dalla parola pausata al discorso pausato. Il recupero delle forme tradizionali coincise anche con un ritorno ai grandi temi romantici.

     Il poeta infine assegnò alla poesia, e qui c’è l’aspetto ottimistico della sua poetica, il ruolo socialmente ed eticamente fondamentale di ricuperare l’uomo, di rigenerarlo, ribadendo la funzione catartica della poesia stessa, il suo valore perenne per cui poté dire: “Soltanto la poesia...la poesia sola può recuperare l’uomo, persino quando ogni occhio s’accorge, che la natura domina la ragione e che l’uomo è molto meno regolato dalla propria opera che non sia alla mercé dell’Elemento” . Solo la poesia infatti ai suoi occhi avrebbe potuto produrre “una purificazione dell’anima”. E pertanto concludeva dicendo: “io fo poca stima di quella poesia che letta e meditata non lascia al lettore nell’animo un tal sentimento nobile che per mezz’ora” (Ragioni d’una poesia).

    

    

     La visione del mondo e gli orientamenti politici

    

     Ungaretti ideologicamente percorse un itinerario circolare, che partì dal Cristianesimo e al Cristianesimo tornò, o, se vogliamo, che andò dall’uomo di pena all’uomo di fede. Dopo aver ricevuto un’educazione rigidamente religiosa, come egli stesso ebbe a definirla , si professò ateo. Negli anni della vita parigina, confessò poi in una sua poesia, si mescolò nelle acque torbide della Senna, metafora della vita sregolata, rafforzandosi in quelle idee. Ma l’esperienza della prima guerra mondiale, da lui direttamente vissuta al fronte, lo portò ad una visione pessimistica dell’esistenza. Scoprì allora la realtà della morte, il dolore autentico, la precarietà della condizione umana, la piccolezza dell’uomo, la debolezza della ragione. Ne nacque il senso della vita come naufragio. Scoprì anche, di converso, l’importanza di certi valori umani, dell’amore, dell’amicizia, della fratellanza universale, della pace. Rifiutò così, sulla strada già segnata da Leopardi, ogni forma di antropocentrismo.

     Ebbe dunque Ungaretti un forte senso della fragilità dell’uomo, della sua precarietà, sia pure occasionalmente scoperta nel momento particolare della guerra in trincea, mirabilmente espressa in “Soldati” dove scrive: “Si sta come /d’autunno /sugli alberi /le foglie” ; vide come tutto sia destinato a passare per lasciare posto infine al deserto: “Neanche le tombe resistono  molto” (Ricordo d’Affrica). Ma da ciò ricavò poi una volontà di vita, si creò dei valori- illusioni, come ad esempio quello dell’amicizia, o quello dell’amore, riproducendo molto da vicino l’analogo atteggiamento di Foscolo. Ma se il poeta di Zante aveva cantato la bellezza muliebre e l’amore come sole consolazioni e ristoro della vita umana, Ungaretti cantò invece la nudità della donna come “unica dolcezza reale” , e salutò il suo innamoramento con queste parole: “Ho atteso che vi alzaste, /colori dell’amore, /e ora svelate un infanzia di cielo. //Porge la rosa più bella sognata” (Rosso e azzurro). E all’amore coniugale inteso come valore il poeta seppe dedicare bei versi, dandone anche un’immagine come questa: “Il vero amore è una quiete accesa, //e la godo diffusa /dall’alba alabastrina /d’una mattina immobile” (Silenzio in Liguria) sempre associandolo a sensazioni dolci.

     Della Storia ebbe pure una visione pessimistica, definendola “una fatica di Sisifo”, a voler significare che ogni conquista in campo spirituale non è mai duratura e che ciò che si è portato in alto con tanta fatica, può all’improvviso di nuovo precipitare in basso.

     Ebbe poi una concezione del tempo considerato non linearmente, come una successione di punti, di momenti, bensì come un insieme di piani su cui la nostra memoria andrebbe a ricollocare le esperienze e così facendo “tutto si confonde in un unico piano, precipitandosi contro di noi”. Singolare svolgimento della concezione bergsoniana.

     In questo contesto s’inserisce anche la sua ripresa delle idee innate per le quali sentiamo l’esistenza d’una vita cosmica che precede la nostra nascita e la stessa comparsa dell’uomo sulla terra. Una vita cosmica dominata dall’armonia e alla quale il poeta pensa nostalgicamente, come quando scrive: “Come dolce prima dell’uomo /doveva andare il mondo” (La preghiera).

     Elementi importanti sono poi il senso del mistero, che tanta parte condizionò della sua produzione poetica e, associato ad esso, il sentimento del nulla. “Il mistero - egli scrive - c’è, è in noi. Basta non dimenticarsene...è il soffio che circola in noi e ci anima...” .

     Parlare dell’ideologia politica di Ungaretti potrebbe essere fuori luogo, se non fosse che egli in vita sopportò i processi politici ai quali abbiamo già accennato. E allora brevemente possiamo ricordare che negli anni della prima gioventù, in terra d’Africa, provò simpatie per il movimento anarchico, probabilmente senza rendersi conto di cosa poi ciò avrebbe potuto comportare volendo essere conseguenti. Certamente però ebbe forte anche il senso della patria, il che si spiega con la sua nascita in un paese straniero con tradizioni completamente diverse dalle nostre. L’Italia egli amò prima ancora di averla conosciuta, confessò che prima di venirvi non ne sapeva che quello che aveva letto nei libri. E quando finalmente vi venne, ne rimase affascinato a cominciare dal paesaggio, così diverso da quello africano, delle montagne innevate dell’Abetone, che gli diede un sentimento nuovo della natura che andò a completare quello che aveva ricavato dalla contemplazione delle solitudini infinite e del silenzio profondo del deserto. E allora Italia amò ancora di più e scrisse: “ Chiara Italia, parlasti finalmente /al figlio d’emigranti /Patria fruttuosa, rinascevi prode /degna che uno per te muoia d’amore”. Negli anni parigini entrò in contatto con i futuristi e conobbe le loro idee. Per questo anche fu subito interventista e poi soldato al fronte. Ma non visse l’esperienza della guerra con lo spirito guerriero ad esempio di un D’Annunzio, fu quindi simpatizzante del socialismo e di Mussolini. Di quest’ultimo rimase amico anche durante il Fascismo, quando ormai era divenuto il Duce. In un articolo degli anni venti scrisse: “Lo vedo lontano, solo, che riedifica la grandezza di un popolo. Sento la forza tremenda che gli ci vuole...E questo il segreto di Benito Mussolini, è questo il segreto d’ogni grandezza: egli è sempre chinato sulla sofferenza, essa è stata sempre il fuoco alimentatore della sua fede”. Parole che da sole basterebbero a far capire le ragioni ideali di natura umanitaria e sociale che determinarono quella posizione politica. Del resto grande fu la massa di intellettuali che, subito dopo la fine della grande guerra, fu attratta dal richiamo all’ordine che avrebbe dovuto determinare la nascita di una nuova civiltà e l’inizio di un rinnovamento sociale, e che perciò poi aderì al Fascismo che quegli ideali sembrava realizzare. Passata anche la seconda guerra mondiale e scampato alle epurazioni, si manifestò moderato e il suo avvenuto ritorno al Cristianesimo gli guadagnò le simpatie dei cattolici. Si rifiutò però di unirsi al coro dei celebratori della resistenza italiana e dei propagandisti del marxismo, rimanendo invece fedele al suo ideale di poesia pura. Ma non fu insensibile nei confronti dei problemi delle classi subalterne. In alcuni suoi scritti infatti affrontò il tema della giustizia sociale, parlando di “umana dignità”, della necessità per la nostra società di raggiungere un assetto sociale più umano. “Se il lavoro fosse oggi nel mondo ragionevolmente organizzato - egli disse - tutti gli abitanti della terra potrebbero godere già oggi d’una vita agiata...la società deve conseguire un assetto più umano”. Ma non seppe poi additare attraverso quali vie.

    

    

     Le raccolte delle poesie

    

     Ora le poesie di Ungaretti furono ripubblicate tutte in un unico volume dal titolo “Vita di un uomo” e mai titolo fu più appropriato. Ne fanno parte le raccolte “L’Allegria” (1914-19), il “Sentimento del tempo” (1919-1935), “Il dolore” (1937-1946), “La Terra promessa” (1935-1953), “Il taccuino del vecchio” (1939-1960), “Nuove” (1968-1970), ed altre ancora. Tra tutte, di fondamentale importanza è “L’Allegria” , ci consente infatti di cogliere subito sia, a livello formale, le novità della poesia ungarettiana e la sua appartenenza al Decadentismo inoltrato, sia, a livello dei contenuti, i temi poetici più cari al poeta; di rinvenire aspetti importanti della sua visione del mondo; di ripercorrere, infine, il momento più saliente della sua esperienza terrena, cioè quello della guerra.

     “L’Allegria” dunque si presenta come un diario di guerra costituito dalla descrizione di scenari o di piccoli episodi che furono capaci sia di colpire i sentimenti del poeta, sia di far scaturire dal suo animo pensieri e riflessioni che talora hanno il valore di una scoperta, tal altra invece di una confessione. La caratteristica di quasi tutti i componimenti pertanto è quella di essere costituiti di due parti: la prima, volta a descrivere un paesaggio o a narrare un evento, e la seconda ad esprimere un sentimento, una considerazione, una verità appena scoperta. Diario dunque di carattere autobiografico, di una biografia sia esterna che interiore. Così da una parte si fissano nei nostri occhi le scene del soldato massacrato che muore fissando l’espressione del suo viso in un ghigno volto al plenilunio, delle case bombardate di cui non restano che brandelli di muri, dell’Isonzo che scorre nel suo letto levigando i suoi sassi, o quella del massiccio del San Michele con le sue solitudini e le sue rocce, dall’altra invece l’immagine di Ungaretti “uomo di pena”. E da “L’Allegria” il ritratto del poeta esce certamente ben delineato. Egli infatti ci appare come un uomo dal cuore profondamente straziato dal dolore procuratogli dalla morte orrenda di tanti commilitoni, dalla distruzione di tanti paesi, dalla guerra in sé come naufragio dell’intelligenza umana. Quel cuore che in “San Martino del Carso” ci viene offerto in immagine come il paese più straziato, come un cimitero in cui nessuna croce manca. Il dolore indicibile produce nel poeta uno svuotamento totale che fa sì che egli si senta ormai come una pietra, fredda, dura, disanimata, prosciugata come lo sono i suoi occhi rimasti ormai senza lacrime, “ Come questa pietra / è il mio pianto / che non si vede” (Sono una creatura). Ma questo dolore tuttavia non riesce ad abbattere completamente l’uomo, non riesce a fargli, odiare il mondo, la vita, che anzi, dopo il naufragio, “subito riprende /il viaggio/ come... un superstite/ lupo di mare”(Allegria di naufragi), o ama la vita ancora di più tanto che, in trincea, vicino all’amico massacrato, può metaforicamente scrivere “lettere piene d’amore” e dichiarare: “non sono mai stato /tanto /attaccato alla vita” (Veglia). E questa forza per positivamente reagire il poeta trova dentro se stesso e scopre che “ Ungaretti / uomo di pena / ti basta un illusione / per farti coraggio” (Pellegrinaggio) arrivando a darsi una ragione del tutto “Volti al travaglio /come una qualsiasi /fibra creata /perché ci lamentiamo noi?” (Destino), e in questo contesto anche ad una nuova considerazione della morte, strettamente collegata a questa visione pessimistica dell’esistenza, per cui “La morte / si sconta / vivendo” (Sono una creatura).

     L’altra definizione che Ungaretti dà di se stesso ne “L’Allegria” è quella di “docile fibra dell’universo”. Questa ci porta sul terreno di un altro grande aspetto della poesia ungarettiana: il desiderio di comunione con la Natura. Il poeta infatti sentì l’esigenza di scomparire nell’immensità dell’universo, di sentirsi integrato in esso come un qualsiasi altro elemento fisico, e come tale obbediente alle sue leggi. Per questo egli rinunciò alla visione antropocentrica che vuole l’uomo signore e padrone dell’universo stesso. Questa sua posizione ricorda sia certi atteggiamenti del romanticismo di G. Prati, sia il panismo dannunziano. Sennonché nulla c’è di più lontano dalla personalità di Ungaretti dello spirito di un D’Annunzio che cercava la confusione con la Natura e la metamorfosi in essere vegetale, ai fini del conseguimento di una estrema esperienza sensoriale. La rinuncia all’antropocentrismo potrebbe richiamare alla memoria anche l’esperienza intellettuale di Leopardi o quella mistica di San Francesco. Certo Ungaretti fu molto vicino al recanatese, ma in questo caso non c’è coincidenza di posizioni e tenue appare il legame anche con l’Assisiate. La visione del mondo del Santo infatti fu fondamentalmente ispirata da un ottimismo che qui non è presente, mentre la volontà di Ungaretti di sentirsi docile fibra dell’universo e con esso in armonia, nasce da una visione negativa dell’umanità presente e da quasi un rifiuto della condizione di uomo. Quest’uomo gli risulta in disarmonia con l’universo che lo circonda nella misura in cui ne forza le leggi naturali introducendo in esso il male. Il poeta dunque desidera la riduzione totale di sé ad essere “docile”, e come tale obbediente al flusso della vita cosmica, e sentirsi con essa in armonia, perciò egli dice “il mio supplizio / è quando / non mi credo / in armonia” (I fiumi).

     Il ritratto del poeta si completa con un’altra immagine, quella del girovago. Egli sente la sua esistenza consistere in una ricerca, quella di un paese innocente, dove l’umanità sia ancora vergine, incorrotta e senza malizia. Forte è in lui il desiderio di recupero di una condizione paradisiaca, ma accompagnato dalla coscienza che questa Eden non c è, che vano sarà il suo girovagare. Tuttavia non lo abbandona, generando una forma nuova di titanismo, non più consistente nella volontà di lottare per affermare la propria dignità contro la forza distruttrice della Natura, bensì nell’ostinazione messa in quella ricerca nella quale poi finisce con il consistere la vita stessa. Nasce così sia l’immagine del girovago, che si riallaccia alla lontana condizione del poeta trovatore, che girava di castello in castello in cerca di un amore, sia, andando ancora più giù nel tempo, alla condizione degli Eneadi.

     Questa pittura diretta di sé si realizza poi grazie alla descrizione anche di altri atteggiamenti del poeta, per i quali egli si collega di nuovo ai decadenti francesi, quello cioè della condizione di spirito dominata dal languore, da una forma di spossatezza, quasi rinuncia ad entrare nell’agone, come quando scrive: “ Non ho voglia / di tuffarmi / in un gomitolo / di strade // Ho tanta / stanchezza / sulle spalle // Lasciatemi così / come una / cosa / posata / in un / angolo / e dimenticata” (Natale).

     C’è ancora ne “L’Allegria”, nonostante l’affermazione de “l’inesprimibile nulla” (Eterno), quell’ansia del divino, quell’esigenza di Dio che alla fine ricondurrà il poeta nell’alveo del Cristianesimo e che ci consente di parlare di una conversione non dissimile da quella manzoniana. E infatti in “Dannazione” possiamo leggere: “Chiuso fra cose mortali / Anche il cielo stellato finirà / perché bramo Dio?”, oppure: “Quando mi desterò /dal barbaglio della promiscuità / in una limpida e attonita sfera // Quando il mio peso mi sarà leggero // Il naufragio concedimi Signore / di quel giovane giorno al primo grido” (Preghiera).

     Per quanto riguarda le successive raccolte ricordiamo che nel “Sentimento del tempo” si notano diversi cambiamenti. Intanto le poesie tendono sempre di più ad esaurirsi nella rappresentazione del paesaggio, per altro non descritto linearmente e realisticamente, ma con immagini tolte qua e là, e che non è più quello del Carso, bensì quello di Roma o dei Castelli romani e di Tivoli in particolare. Esemplare è “Due note” con cui il poeta ritorna anche alla sua brevità essenziale: “Inanella erbe un rivolo, /un lago torvo il cielo glauco offende” . A livello formale poi si assiste ad un recupero dei versi tradizionali della poesia lirica, ad un uso delle strofe che va regolarizzandosi. Come scrive G. De Robertis, Ungaretti distrusse il verso per poi ricomporlo, e cercò i ritmi per poi costruirne i metri. “E volendo creare per sé e per il lettore una libertà nella legge, un poco alla volta riobbedisce a quella legge....I versi tradizionali allora fatalmente gli rinascono come entità intatte...”.

     A livello tematico poi c’è un ricorso quasi continuo alla mitologia, vivendo a Roma infatti come non potevano divenire familiari al poeta i miti? E, come egli stesso confessa, “fantasmi mi apparivano di frequente nella città dove vivevo” . Ma nel ricorso al mito non è da vedere un tentativo di recupero classicistico, l’operazione ungarettiana è invece simile a quella pascoliana conviviale. Anche Ungaretti infatti rievoca immagini mitiche per caricarle di significazioni non conosciute all’evo antico. C’è poi la presenza di Roma barocca che porta il poeta alla riscoperta della sua religiosità attraverso quell’horror vacui (orrore del vuoto) come egli stesso lo definì. L’assenza del corpo fisico, della materia, è percepita infatti come assenza del divino di cui però si avverte l’esigenza. E a Dio infine il poeta ritorna attraverso anche un recupero memoriale dell’infanzia, e in questo itinerario dell’anima verso Dio un ruolo importante riveste anche il ricordo della madre che l’educazione religiosa gli aveva impartito. E poiché ad Ungaretti capitò, un po’ come a Pascoli, di aver la sua vita scandita da lutti familiari, anch’egli finì col sentire la morte come la strada per ricongiungersi ai suoi cari, ma necessario era prima che egli si riconciliasse con Dio, e così poté scrivere “ La madre” in cui leggiamo: “ E il cuore quando d’un ultimo battito /avrà fatto cadere il muro d’ombra, /per condurmi, Madre, sino al Signore, /come una volta mi darai la mano...E solo quando m’avrà perdonato, /ti verrà desiderio di guardarmi. // Ricorderai d’avermi atteso tanto, /e avrai negli occhi un rapido sospiro”. E questo desiderio di Dio culmina ne “La pietà” ove si legge: “Dio, guarda la nostra debolezza. //Vorremmo una certezza //Non ne posso più di stare murato /nel desiderio senza amore...Fulmina le mie povere emozioni, /liberami dall’inquietudine. //Sono stanco di urlare senza voce ” e in “ La preghiera” “...Da ciò che dura a ciò che passa /Signore, sogno fermo /fa che torni a correre un patto. //Oh! Rasserena questi figli. //Fa che l’uomo torni a sentire /che, uomo, fino a te salisti /per l’infinita sofferenza. //Sii la misura, sii il mistero...Vorrei di nuovo udirti dire /che in te finalmente annullate /le anime s’uniranno /e lassù formeranno, /eterna umanità, /il tuo sonno felice”.

     Ma c’è in “Sentimento del tempo” un altro elemento ancora importante: la calura estiva. L’estate è la stagione ungarettiana del sentimento del tempo . Si legga “Di Luglio”: “Quando su ci si butta lei /si fa d’un triste colore di rosa /il bel fogliame. //Strugge forre, beve fiumi, /macina scogli, splende, /è furia che s’ostina, è l’implacabile, /sparge spazio, acceca mete, /è l’Estate e nei secoli /con i suoi occhi calcinanti /va della terra spogliando lo scheletro” dove evidente e forte è la reminiscenza dannunziana. E infine ricordi d’amori passati, di terre lasciate (Canto beduino), e insistente, ed ogni tanto riemergente, il tema della morte.

      “Il Dolore” costituisce invece una raccolta un po’ particolare. Vi trovano spazio i riflessi di due tragedie, una personale del poeta, e cioè la morte del figlioletto, e una collettiva del popolo italiano, cioè quella della guerra. Della morte del figlio il poeta ebbe a confessare: “ fu la cosa più tremenda della mia vita...quel dolore non finirà mai di straziarmi”. Un po’ come Carducci quando perse il figlioletto Dante, così Ungaretti per Antonietto volle scrivere dei versi, non però elegiaci come quelli carducciani, ma tragicamente disperati come questi: “In cielo cerco il tuo felice volto /ed i miei occhi in me null’altro vedano /quando anch’essi vorrà chiudere Iddio”, oppure: “Inferocita terra, immane mare /mi separa dal luogo della tomba /dove ora si disperde /il martoriato corpo “ o “Or dov’è, dov’è l’ingenua voce /che in corsa risuonando per le stanze /sollevava dai crucci un uomo stanco?”. La poesia più forte poi dedicata alla tragedia collettiva è sicuramente “Mio fiume anche tu” che fa parte della sezione “Roma occupata” . Lì possiamo leggere: “ Mio fiume anche tu, Tevere fatale /ora che notte già turbata scorre; /ora che persistente /e come a stento erotto dalla pietra /Un gemito d’agnelli si propaga /smarrito per le strade esterrefatte...” . Il poeta però poi, incapace di odiare, lancia un messaggio di pace e di perdono: “ Cessate d’uccidere i morti / non gridate più, non gridate /se li volete ancora udire /se sperate di non perire...” (Non gridate più). Il dolore privato e il dolore pubblico per altro produssero una stessa reazione, cioè il colloquio drammatico e sublime con Dio.

     Ma Ungaretti non aveva la vocazione del poeta civile, non amava quel tipo di poesia. Sicché con la successiva raccolta tornò alla sua poesia pura. “La Terra promessa” infatti è certamente opera più profondamente autentica e sentita rispetto alle canzoni politiche. “La Terra promessa” avrebbe dovuto essere un poema scenico, con accompagnamento musicale, con al centro la figura di Enea e quella di Didone, ma il poeta non lo portò a termine ed è perciò rimasto allo stato di frammenti. La terra promessa a cui si allude dunque non è già quella degli Ebrei, ai quali per primi va la nostra mente, bensì quella degli Eneadi. Ma questo poco conta. Essa acquista infatti una significazione metaforica, rappresenta infatti l’Eden. La ricerca della terra promessa è la ricerca di una condizione edenica persa per sempre. E questo tema, si ricorderà, era già apparso ne “L’Allegria”. E qui si trova pure congiunto con quello della morte e del nulla. Solo che mentre ne “L’Allegria” in primo piano è il poeta che parla, qui invece i contenuti sono dati attraverso una serie di “cori” di Didone seguiti dal recitativo di Palinuro. Vale la pena citare il “Finale”: “Più non muggisce, non sussurra il mare /il mare. //Senza sogni, incolore campo è il mare, /il mare. //Fa pietà anche il mare, /il mare. //Muovono nuvole irriflesse il mare, /il mare. //A fumi tristi cedé il letto il mare, / il mare. //Morto è anche lui, vedi, il mare //il mare”. A livello formale e stilistico le scelte di ripristino dell’ordine si sviluppano ancora di più. Possiamo anzi dire che l’evolversi della sua personalità si accompagnò con una sempre maggiore consapevolezza formale e ripresa dei valori stilistici della nostra tradizione lirica basata soprattutto nella rilettura continua di F. Petrarca.

     Vogliano concludere questo sintetico excursus citando una raccolta di cui poco si parla, e cioè “Derniers Jours” dedicata ad André Breton e ad Apollinaire, che, come si sa, fu amico di Ungaretti. Qui il poeta si fa seguace proprio di Apollinaire, anch’egli realizzando dei calligrammi, soprattutto nella sezione P-L-M (1914-1919). Ovviamente queste poesie sono scritte in francese e riflettono in qualche misura lo spirito della vita parigina in quel    momento storico, ma hanno poi fortissimi legami anche con l’Allegria. Citiamo solo questi versi: “Ah je voudrai m’éteindre /comme un réverbère /à la première lueur /du matin”.

     

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